Christine
non è altro che un’ennesima bionda, ma ha dimenticato tutto. Com’è iniziata, il
vino bianco, casa mia, la festa nel palazzo, la corsa in taxi. Ha detto che
l’unica cosa, sì, tra Am Brill e il ponte della stazione centrale, qualcosa è
successo, che era tutto un po’ molle, indefinito, amorfo, come quando gli occhi
si inumidiscono sotto la doccia.
Dice che il taxi ha rallentato e siamo
diventati tutti una melma fluorescente, traslucida, e da lì la sua memoria è
sparita. La prima volta dopo così tanto tempo, e Christine ha dimenticato
tutto. Il mio bagno interessante, le scale pericolose, l’uomo del treno che, in
tutta onestà, era identico al soggetto di un quadro che sta in casa mia da
prima che nascessi, quello del prete che tira a canestro, impercettibile.
Christine non ricorda nemmeno i due Campari Spritz sulla terrazza dell’Atlantic
Hotel, anzi, ha tutta l’aria di non sapere minimamente di che luogo si tratti.
Mentre penso che ci vorrebbero delle cinture di sicurezza anche a letto,
Christine dice, hai ragione, e lo scandisce bene, guardandomi coi suoi occhi
glaciali dritto nei miei occhi traslucidi. Hai ra-gio-ne, piano. Eppure non ricorda
neanche quello che ci siamo detti la mattina, tre ore, mentre guardavamo
l’orologio ogni venti minuti per capire quanto tardi saremmo riusciti a fare.
Christine ha dimenticato perfino di avere un orologio enorme sulla parete sopra
la porta d’ingresso di camera sua, un orologio così grosso che può leggervi
l’ora anche senza occhiali. A dire il vero, Christine non ricorda nemmeno che
il suo nome, per essere precisi, è Kristine. Mi chiede, ma il tempo,
normalmente, scorre in quattro quarti?, e non ricorda le uova strapazzate alle
tre di notte, il cuscino ripieno di noccioli di ciliegia, il discorso delle
scimmie e delle banane. Il maglione di suo padre, enorme, di lana pesante
rossa, le cade fin sotto il pube, lento. Spuntano solo le sue lunghe gambe
affusolate, per il resto è nuda e porta gli occhiali da vista neri. Mentre penso
che dovrei farle una foto, Kristine dice, non ci pensare nemmeno. Ieri sera Kristine
aveva un tatuaggio, nella parte interna della caviglia, sotto il malleolo.
Strano a dirsi, ma le metteva in risalto le sue giunture sottili, quel suo
camminare sempre sul limite, sulla linea di confine tra il sole e la pioggia.
Mi dice che il taxi si è fermato e la poltiglia fluorescente è diventata sempre
più fluida fino ad essere una specie di fascio di luce potente che correva
verso di lei, che non era più lei, praticamente verso la sua anima, la sua
coscienza, una se stessa che non sa definire. E il flusso sembrava produrre un
suono come di risate ovattate, attutite, come se ci fosse vita all’interno di
questo laser che le entrava dentro, piano. Mentre penso che la mia storia è
completamente diversa, Kristine dice, c’eri anche tu. Il taxi è scomparso e
sopra il flusso, da qualche parte, c’ero io, che non ero più io, praticamente una
presenza, la mia anima, un me stesso che non sa definire. Mi chiede, l’uomo del
treno, il prete del quadro insomma, fa canestro? È la domanda più difficile
della mia vita, non lo so, me lo sono sempre chiesto. L’uomo del treno, lo
ricordo bene, quel vecchio avanzava piano col deambulatore, come se vivesse nel
rallenty di se stesso, e muoveva i piedi a scatto, come in una specie di marcia
nuziale, ma sempre col sinistro avanti, bestemmiando come un camion, una pena
anche per chi lo guardava. Mentre penso che non abbiamo pagato il taxi,
Kristine si fissa sul mio ciglio sinistro per una frazione di secondo, poi un’altra,
poi dice la ragazza italiana, lei ti ha rubato il bancomat dal portafogli
mentre stavi seduto sul ciglio del binario, sul confine tra i tuoi occhi e l’acqua
della doccia. Le tre ragazze italiane, dice, le hai approcciate tu, io. Una mi
ha detto da dove vengo, mi ha detto che sono nato e cresciuto a Livorno,
rimasto lì per pigrizia. Io ho risposto che no, non è vero, se sono alla
Hauptbahnhof ci sarà una ragione diversa. La ragazza che non era più italiana,
la sua anima, una se stessa indefinibile mi ha detto io ti ho già incontrato,
eri qui col tuo amico, io so chi sei. Kristine dice le ragazze italiane ti
hanno preso anche la patente, poi sono andate a prelevare. In quel momento la
luce, il flusso, erano diventati come una sfera, una cosa sferica densa, una
palla praticamente, e Kristine dice l’uomo del treno, il prete del quadro, ha
tirato la sfera densa dentro di lei che non era più lei, in quel momento, dice,
tu eri il dentro, il vecchio del treno, e sei corso fuori dalla stazione, in
cerca di ogni bancomat nelle vicinanze, in cerca di ogni ragazza italiana nelle
vicinanze, lento. Kristine non ricorda il mio maglione a strisce, il suo bagno
un po’ scassato, Janna che aspettava inutilmente il suo ragazzo nella stanza
accanto. Sono passati mesi dall’ultima volta, e Kristine non ricorda nemmeno il
bicchiere di vino lasciato sulla scrivania, la coperta di fortuna che mi ha porto,
il reggiseno spaiato. Kristine dice la sfera, la cosa sferica di luce è entrata
dentro, è arrivata in ogni minuscolo capillare della sua anima, la sua
coscienza, quel qualcosa di lei impercettibile. Mentre penso a com'è più bello
sentirsi dire, invece di “non fare tardi”, Kristine dice che sono scattato
fuori dalla stazione e lei ha gridato “torna presto”, mentre il vecchio del
treno cadeva dal ciglio del binario, lento, con il suo deambulatore sulla cosa
sferica che non era più sferica o fluida, era più come una cosa irrigidita,
come una lastra di cristallo dentro quel qualcosa di lei. Kristine dice l’uomo
del treno, lento, ha tirato il deambulatore, che non sembrava più nemmeno un
deambulatore, era più il rallenty del rallenty di un deambulatore sulla cosa di
cristallo, una pena anche per chi guardava, mentre il vecchio continuava a
cadere sul binario e la sua faccia cambiava, piano, diventava un ghigno come il
ragno che piange di Odilon Redon, poi deforme come lo studio per testa di
vecchio di Leonardo da Vinci, poi inquietante come il mostro con la testa di
uccello che sta nel giardino delle delizie di Hieronymus Bosch, poi sempre più
lento e orribile e disgustoso. Kristine dice la lastra di cristallo, che non
era una lastra di cristallo, si è frantumata in mille pezzi dentro di lei, con
una colonna sonora di violini spezzati e voci francesi, tedesche, inglesi, che
sibilavano “dove vai?”, esattamente come dopo la metà di Providence. Mentre penso
a Providence, Kristine chiede dove vado. Dice che mentre correvo in cerca di
banche, il flusso era tutto sopra di noi, tanta luce che sembrava giorno, e ho
incontrato questo tizio asiatico. Kristine dice il tizio asiatico, urlava come
un pazzo furioso verso di me, lento, ma non si sentiva più niente, era tutto
ovattato, e il tizio asiatico strillava senza strillare, uno sforzo incredibile
per non dire niente, il viso completamente rosso, le tempie che pulsavano, la
vena al centro della fronte gonfissima, mentre il qualcosa di lei era sopra
tutto questo. Mentre pensa “torna presto”, io mi giro e il tizio asiatico urla
sempre più forte, il vecchio inizia a toccare il binario, lento, la palla si
stacca dalle mani del prete, piano, e io cammino al centro dell’immenso viale
che porta al fiume, impercettibile. Kristine dice, ci sono gli asini. Sono sei
o sette, si muovono sui vari incroci del viale e si guardano da un semaforo
all’altro con cattiveria. La scena è sempre più silenziosa, il tizio asiatico
strilla come un pazzo, sempre più lento, e sfuma sul bianco mentre la vena gli scoppia
talmente piano che sarà tutto bianco prima che si possa anche solo immaginare
del sangue. Kristine dice che lei è al mio fianco e camminiamo e parliamo, piano,
sempre più bianchi, sempre più impercettibili. Io le dico, voglio che gli asini
raglino, Kristine dice che mi metto a ragliare per provocarli. Uno alla volta,
gli asini iniziano a ragliare, poi si tolgono la maschera da asino che portano
e sbiadiscono, si attenuano, hanno un’altra faccia d’asino, sfumano al bianco, evaporano.
Il flusso, dice Kristine, il flusso non c’è più e il sole è sempre più grosso
sopra l’enorme porta inutile di fronte all’Osterdeich. Mi giro, mentre sotto al
portico della traversa di Martinistrasse una signora legge i necrologi. Mentre
il vecchio si adagia sul binario, lento, le tre ragazze italiane prendono il
treno e sfumano, si sgretolano, piano, e la palla svanisce nella sua
traiettoria, impercettibile. Il vecchio esplode in mille pezzi, lento, Kristine
dice è tardi, piano, torna presto, e non riesco a sentirla, torna, mentre apre
la porta, torna presto, impercettibile, e scompare.
preferisco Christine, francese, per il resto, anche se immaginifico, l'importante è sopravvivere e che si scopicchi, ché lo scopicchiare sgombra la mente ed il fisico
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